Solo il rumore dei miei passi

Karl1Karl Unterkircher racconta il sogno realizzato di scalare Everest e K2. Confidando che emozioni e gioie non si provano solo in vetta alle montagne più alte della terra.

“Non te ne accorgerai, però qualcosa nella tua vita cambierà” gli aveva predetto un amico. L’aroma delicato del tè al lampone si diffonde nella calda cucina di Karl, mescolandosi al delizioso profumo dei biscotti natalizi preparati di Silke, la giovane moglie.

Volge lo sguardo alle sue spalle, al Sassolungo che si arrossa nel tramonto in un incantevole scenario innevato: “In cima al Sassolungo forse ho provato le stesse emozioni, se non addirittura una gioia maggiore. Si è più rilassati e si corrono i rischi che a scendere da un 8000.”

Confessa di non essere interessato a collezionare tutti i 14 giganti della terra, anche se è già salito sui due più elevati: “Mi attira tornare a quelle quote. Ma anche qui nelle Dolomiti si possono trovare sempre cose nuove, posti ancora del tutto selvaggi, pareti, fessure che nessuno ha mai toccato, magari non difficilissime, ma affascinanti.” Quando parla della natura i piccoli occhi scuri cominciano a brillare. Da ragazzo amava sciare, giocare a pallone, ma soprattutto girovagare per i boschi attorno a Selva Gardena. “Ma non sono un alpinista nato” si schernisce ricordando la paura dei precipizi quando papà lo portava in montagna da piccolo. La madre non ha voluto giocasse a hockey: “Troppo pericoloso!” diceva. “Se avesse saputo che da lì a poco avrei cominciato ad arrampicare, penso che mi avrebbe fatto giocare…”.

Ha cominciato a 15 anni. La sera scappava con tre amici dall’officina meccanica dove lavorava (la scuola non faceva per lui) per arrampicare su … un sasso verso il Sella. “La parete era attrezzata con qualche chiodo, ma era a strapiombo: all’inizio non riuscivamo a salirla, ma in compenso si poteva arrampicare al riparo anche quando pioveva. In autunno vincemmo la resistenza del sasso, sulla via più semplice. Pochi giorni dopo ho fatto la mia prima uscita alpinistica vera: la prima torre del Sella. Sono salito da primo,  incosciente dei pericoli che correvo e facevo correre agli altri”. Mostra la foto di quei momenti incoscienti. Oggi, che è capo dell’Aiut Alpin Dolomites, il soccorso alpino delle Dolomiti, commenta: ”Non consiglio a nessuno di arrampicare senza un corso che insegni le cose fondamentali per andare in montagna senza commettere errori: è troppo pericoloso.”

Inizia ad arrampicare con nuovi amici, ma sempre e solo da secondo, scalpitando non poco: “Quello non mi piaceva tanto, ma intanto iniziavo a capire la bellezza della montagna, della natura scoprendo via via il fascino della solitudine, del silenzio.”
Da qualche anno Karl può permettersi di vivere di sola montagna, facendo la guida alpina: una prospettiva di vita che ha compreso facendo il militare fra i paracadutisti alpini, divenendo istruttore di alpinismo: “A 19 anni ho capito che sarei diventato guida ed avrei passato la vita ad arrampicare. Di giorno facevo l’intagliatore di statuine in legno: 11, 12 ore al pantografo nei giorni di pioggia per essere libero di arrampicare col bel tempo. Un lavoro monotono, sempre con la cuffia per i rumori. Il Cervino, il Bianco erano i miei primi obiettivi e per quelli mi allenavo tanto, da solo, mattina e sera. Non uscivo mai con gli amici: una sera mi resi conto che a forza di stare da solo… non sapevo più parlare. Era venuto il momento di scegliere”. Sorride pensando a interviste e serate dopo la conquista degli ottomila: “Anche adesso non parlo molto, ma in questo anno mi hanno fatto parlare così tanto che ho quasi trascurato gli allenamenti…”.

All’inizio è stato difficile vivere solo di alpinismo. Dava una mano a tirare funi sui piloni degli impianti di risalita: “Dove gli altri si muovevano sulle ginocchia, io andavo avanti indietro in piedi senza problemi di vertigini.”
Karl ha sempre preso la vita come veniva, senza pianificare niente: “La maggior parte delle cose che ho fatto nella vita le ho fatte per caso, … anche salire l’Everest.” Sarà per caso, ma l’atmosfera a casa Unterkircher è ospitale: Alex, 3 anni, gioca allegramente sul tappeto con la piccola Miriam, guance rosse e paffute, 7 mesi, nata poco dopo il ritorno dal K2. Non hanno la televisione: “Si vive bene senza: per le notizie basta la radio” spiega Silke con orgoglio. Ha condiviso per anni con Karl la passione per l’arrampicata: ora si dedica ai piccoli. Sa di aver sposato un alpinista, un uomo che la lascia trepidante a casa per diversi mesi l’anno. Ricorda quando Karl le ha annunciato la spedizione all’Everest ed al K2: “Non mi ha detto subito quanto tempo sarebbe stato lontano, ma l’ho scoperto da sola”.

Nel ’92 la prima spedizione, l’Aconcagua, 6950 metri, in America del Sud: lì scopre che il suo fisico non soffre la quota quanto gli altri. Da allora ha inanellato altre 7 spedizioni in Sud America e Himalaya, 32 quattromila sulle alpi, 30 prime ascensioni sulle Dolomiti, centinaia di arrampicate sulle vie alpinistiche più impegnative, su roccia in estate e su cascate di ghiaccio in inverno, dozzine di discese estreme sugli sci. Oltre ad accompagnare centinaia di clienti a scoprire i segreti dell’alpinismo. Innumerevoli scalate ed un lungo e costante allenamento che hanno convinto Agostino Da Polenza, organizzatore della salita scientifica all’Everest e del cinquantenario al K2, ad inserirlo nella prima squadra di alpinisti, quella destinata a tentare le cime. Karl ammette che è stata una fortuna poter salire entrambe le vette: occorre chi copra i costi delle spedizioni, occorre tempo favorevole, salute, rapporti buoni con gli altri alpinisti. Coperte le spese, restava da colmare con sponsor personali il mancato guadagno, una ricerca che ha fatto scoprire a Karl tutto il peso della commercializzazione degli ottomila: “Ci hanno offerto solo un terzo di quanto richiesto: nessuno poteva essere sicuro di essere proprio lui a salire, ma questo gli sponsor non lo capiscono. Avevo già fatto altre spedizioni e sapevo che in cima sarebbe andato chi era più preparato e stava meglio: per questo accettai quella cifra.”

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Il racconto delle spedizioni del 2005 da parte di Karl è sobrio, stringato, nonostante la curiosità di chi lo ascolta e l’incalzare delle domande. “All’Everest dovevamo raggiungere la cima ad ogni costo, senza o con le bombole, perché avevamo da svolgere compiti scientifici. Dall’ultimo campo, a 8300, tra noi alpinisti avevamo deciso di partire senza, ma poi improvvisamente il tempo è cambiato: senza bombole aumentava il rischio di congelamento e così abbiamo rinunciato. Lo sappiamo che alla gente importava poco se eravamo saliti con le bombole o senza, ma per noi la differenza c’era, eccome. Così la mia squadra, la prima, ha rinunciato: la seconda ha trovato difficoltà atmosferiche e perciò, dopo 5 giorni, è toccato di nuovo a noi, sospinti anche dalle pressioni crescenti degli organizzatori della spedizione.” Il resoconto entra nel vivo: “Poco sotto la cima, all’ultimo salto di roccia, sono stanchissimo, ma sento che ce la posso fare. Continuo a salire, passo dopo passo, al rallentatore. All’improvviso, eccola, la cima più alta del mondo. Mi appoggio ai bastoncini per riposare: intravedo alcune persone in vetta. Rimango concentrato: non voglio ancora liberare l’euforia. Conto i respiri, dieci, e porto ancora avanti il piede per un altro passo. Ci sono volute dieci ore per salire i 550 metri di dislivello dall’ultimo campo, una quota che da noi si supera in un’ora. Il grande sogno di essere in cima al mondo, si è avverato.” La soddisfazione di Karl sembra però contenuta: “Quando vado al Sassolungo non trovo mica tutta quella gente sulla vetta. Non ho esultato, ma in me c’era la soddisfazione di avercela fatta, di aver dato un senso a tanta fatica e sofferenza.” Due settimane a casa, a mangiare, bere, dormire e poi la partenza per il K2. “Sono partito senza alcuna preoccupazione: la mia parte l’avevo già fatta. Ho sempre incitato i compagni ad andare avanti, credendoci fino in fondo. Anche quando la tenda che avevamo piantato a 7200 metri, al campo tre, era volata via per il vento, con materiale, sacchi a pelo e telecamera. Per fortuna ne avevo piantato un’altra poco più su, a 7800 metri, nascosta in un buco. In 10, con soli 5 sacchi a pelo, ci siamo messi a stella per coprire i piedi di tutti.” Karl racconta di quella notte così breve, del freddo (meno 30), della nausea, dello scarso appetito, problemi di cui ha patito meno degli altri. “Ciò che preferivo era lo speck con il pane secco che si mangia nelle nostre valli. A mezzanotte sveglia, due ore per sciogliere la neve e fare del tè. Alle due fuori, sferzati da un vento gelido. Alle prime luci dell’alba ci siamo resi conto che cinque nostri compagni erano tornati indietro, portando con sé ciascuno 50 metri di corda necessari a tutti gli altri. Non ce lo aspettavamo. Per fortuna abbiamo incontrato una squadra di spagnoli con un cordino di 200 metri, col quale siamo riusciti ad attrezzare con le corde fisse il “collo di bottiglia”, un passaggio difficile, molto ripido con 60 per cento di pendenza. La neve arrivava all’anca: per fare un passo puntavamo il ginocchio nella neve aprendo un buco in cui infilare poi il piede. Quindici ore per salire 800 metri di quota! In cima il caso (che caso! n.d.r.) ha voluto che io fossi davanti a tutti, senza alcuna traccia sulla neve: avevo la pelle d’oca sapendo che solo altre 198 persone era salite lassù, che da tre anni nessuno era arrivato in cima ed io per primo potevo calpestare quella neve vergine. E’ stata un’emozione grande. Lassù la neve sotto i piedi ha un rumore particolare…” Il racconto si conclude con Karl che lo imita con delicatezza.

Squilla il suo cellulare: una persona non è tornata dalle piste di sci ed una  squadra di soccorso deve uscire a cercarla. “Anch’io come guida ho avuto bisogno quattro volte del soccorso per i miei clienti e so quanto sia di aiuto sapere che se sei in difficoltà puoi contare su qualcuno.” Parla delle sue squadre, dell’elicottero pronto a levarsi in volo per ogni emergenza. “Le gioie più vere sono quelle che provi quando sei di nuovo ai piedi della montagna dopo un’ascensione, quando puoi lasciarti andare dallo stress e far calare la concentrazione. E quando in montagna aiuti qualcuno in difficoltà o gli salvi la vita.”

“Volevo scalare tutte le montagne della terra – è riportato in una citazione nel sito di Karl -: non ci sono riuscito, non ci riuscirò mai. Tuttavia vado ancora sempre in montagna: non ho ancora trovato qualcosa di equivalente. Le montagne sembrano avere innumerevoli porte: quando se ne apre una, se ne trovano davanti tantissime altre. E’ impossibile aprirle tutte, però dietro a ciascuna c’è qualcosa di nuovo”. Nel 2006 di Karl è in programma una nuova spedizione: “In Cina, in posti nuovi, non battuti: un gruppo di montagne interessanti da scalare, la più alta 6700 metri; sappiamo poco, nemmeno il nome…” Uscendo, una fitta nevicata imbianca la notte e rende soffici i passi.

testimonianza raccolta da Paolo Crepaz