Relazione di Salvo Russo

 

Salvo Russo, psichiatra, psicoterapeuta e psicologo dello sport.

Da più di 10 anni lavora nel campo della psicologia sportiva sia a livello professionistico che con i settori giovanili. È autore del sito www.psicologiasportiva.it che dal 2003 dà informazioni, gratuite, sugli aspetti psicologici della attività sportiva e che è diventato il sito più visitato del settore in Italia.

 

Lo competizione sportiva: lo sguardo dello psicologo dello sport

Può la competizione influenzare la stima che una atleta ha di sé? Se sì, ci puoi spiegare come questo può accadere?

La competizione è senza dubbio uno strumento che può influire sull’idea che una persona ha di sé. In ambito sportivo il concetto di autostima è stato spesso sostituito con quello di autoefficacia (quanto mi sento efficace a svolgere un determinato compito). Alti livelli di autoefficacia si sono dimostrati direttamente proporzionali a buone prestazioni e viceversa. Molti atleti ottengono eccellenti risultati in allenamento e risultati di un più basso livello in gara. Lavorare sull’idea che l’atleta si è fatto della propria autoefficacia può risultare l’arma vincente per colmare questo gap. Sull’immagine di sé possono inoltre influire le conseguenze secondarie ai risultati ottenuti ed il comportamento delle persone che entrano in contatto con l’atleta (parenti, compagni, allenatori, tifosi, ecc). Ciò dipende dal modo con cui l’atleta interpreta tutti questi eventi. La popolazione sportiva è molto variegata. Alcuni atleti famosi riescono a non prendere troppo sul serio i grandi risultati raggiunti (sportivi ed economici) mantenendo relazioni interpersonali sane ed equilibrate; altri (probabilmente più fragili psicologicamente) si fanno influenzare un po’ troppo dal successo ottenuto strutturando un’idea di sé eccessivamente positiva arrivando quasi a credere di essere “superiori” alle altre persone. Questo crea inevitabilmente un distacco dalla “realtà” nella quale l’atleta impersona il ruolo del “superuomo” (con editori subito pronti a pubblicarne le biografie e le gesta)  che si trova quasi costretto a recitare ciò che i fans ed il mondo esterno si aspettano da lui. Un circolo vizioso dal quale è davvero difficile sottrarsi….

La competizione può essere anche uno strumento di conoscenza di sé? E se sì, in che termini?

Non saprò mai cosa posso realizzare se non provo a farlo. Se è vero che ogni uomo ha dei limiti è anche vero che talvolta questi limiti si possono modificare. La storia dell’uomo degli ultimi 13000 anni, come racconta con metodo scientifico Jared Diamond nel suo libro “Armi, Acciaio e Malattie”, prendendo in considerazione l’evoluzione del genere umano dall’ultima glaciazione ad oggi, è piena di occasioni in cui l’uomo ha provato, talvolta riuscendoci e talvolta no, a superare i propri limiti ed a cogliere tutte le proprie possibilità.

Da un punto di vista sportivo, la competizione può anche essere vista come un metro, un’unità di misura. La prestazione in gara può dare all’atleta una notevole quantità di informazioni che lo riguardano. In gara, l’atleta può ritrovare sé stesso, ma può anche perdersi. Sa quasi sempre da “dove” è partito, ma quasi mai sa esattamente “dove” arriverà. Talvolta, la ricerca del superamento del limite (specialmente negli sport definiti da qualcuno “estremi”) può raggiungere i caratteri della ossessione, ma l’intima esperienza di alcuni scalatori di alta montagna ci dimostra come talvolta l’ascesa verso la vetta in realtà rappresenta un viaggio verso la parte più profonda di sé. Ed una volta intrapreso questo tipo di viaggio dentro sé non sempre è realmente possibile interromperlo.

Perché le competizioni (soprattutto quelle di alto livello) attraggono un numero così grande di partecipanti e spettatori?

La competizione affascina moltissime persone ed attrae spesso le masse proprio perché genera in un tempo molto breve un gran numero di emozioni sia in chi partecipa attivamente alla gara sia in chi assiste alla stessa. La competizione suscita così tante emozioni perché riesce ad accendere degli “interruttori” nascosti nella persone permettendo loro di “regredire” ad una fase evolutiva precedente. Quella del gioco. Solo così si possono spiegare le scene (belle e brutte) a cui ogni domenica tutti noi assistiamo. Sconosciuti che si abbracciano dopo un goal, persone di tutte le età che si ritrovano vestiti al centro della fontana del paese fino alle 2 di notte in totale delirio, ma anche gente che è pronta allo scontro fisico con i “nemici” della squadra avversaria e/o con le forze dell’ordine, genitori di bimbi della scuola calcio che arrivano alle mani durante la partita dei propri figli, ecc.  La competizione mette alla prova la persona. L’individuo viene travolto da un gran numero di intense emozioni che necessitano di essere gestite. E’ la gestione delle emozioni dunque la chiave di volta psicologica riguardo la competizione. Da una parte, la possibilità di gioire e di soffrire in maniera positiva limitando la “regressione” a momenti intensi, ma vissuti con controllo e maturità. Dall’altra, usare il pretesto sportivo per dar sfogo alle proprie quotidiane frustrazioni di una vita infelice ed immatura spostando l’aggressività dall’interno verso l’esterno contro persone o cose che nulla hanno realmente a che fare con la nostra vita.

In alcuni sport sembra che nessuno voglia o possa rispettare le regole. Come rendere compatibili insieme il bisogno di vincere e quello di lealtà?

Ogni competizione (come la vita) ha delle regole. Solo chi rispetta queste regole può partecipare al “gioco”. Le regole mettono l’individuo di fronte a delle scelte etiche: ciò che è lecito e ciò che non lo è, quello che si può fare e quello che non si fa. Ma se durante la competizione gli atleti sono ben osservati e valutati, la vera partita etica si gioca nella solitudine dell’atleta. Chi vede cosa mangia, cosa assume, come si allena, chi incontra, con chi fa accordi un atleta? Nessuno. Soprattutto ad alto livello, un atleta si trova quotidianamente a scegliere tra la via maestra e le “scorciatoie”. Scelte talvolta difficili e controcorrente che molto spesso portano a delle conseguenze. La competizione dà all’atleta la possibilità di soddisfare il suo bisogno di lealtà. Bisogno intimo, talvolta nascosto, ma presente. Senza la competizione lui non potrà dimostrare a sé stesso, prima che agli altri, di essere stato leale. E’ davvero difficile rispettare gli altri se prima non si rispetta sè stessi. Non si saprebbe nemmeno da dove cominciare. La competizione, da questo punto di vista, è come uno specchio che permette all’atleta di guardarsi negli occhi senza dover abbassare lo sguardo. In ambito giovanile questo aspetto diventa ancor più importante poiché anche attraverso lo sport vengono formati gli adulti di domani. L’esempio della Federazione Italiana Giuoco Calcio in occasione della squalifica di Birindelli (settore giovanile Pisa calcio) non va in questa direzione (si potrebbe raccontare brevemente l’episodio).

E’ vero che lo sport agonistico può preparare meglio un bambino ed un ragazzo alla vita adulta?

La competizione, quando vissuta serenamente, diventa uno strumento educativo straordinario. Quando si dice ad un bambino che è importante solo partecipare e che vincere non conta, gli si dice una grande bugia. Non lo si prepara adeguatamente alla vita. Nella vita (che lui se ne accorga o meno) sarà in continua competizione. Per la scelta del banco su cui sedersi il primo giorno di scuola, per la scelta dell’amico del cuore, col fratellino per i giocattoli, durante il corteggiamento della prima ragazzina che gli farà battere il cuore, per ottenere i migliori appunti all’università, per ottenere il primo posto di lavoro, per avere il miglior mutuo possibile e perfino con la moglie quando dovrà decidere dove andare in vacanza. La vita, da questo punto di vista, è una grande competizione nella quale talvolta bisogna  sapere perdere ed alte volte sapere vincere. Come nello sport, quasi sempre vince il migliore. E’ bene dunque che fin da piccoli i bambini e poi i ragazzi si abituino a capire che per sperare di vincere non basta fare il “compitino”, ma per avere qualche possibilità bisogna provare a dare il meglio di sé. Ed il meglio di sé (nello sport come nello studio e nella vita) non è un casuale, ma qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno con grande fatica. Troppo spesso vediamo giovani che riferiscono di non essere riusciti a raggiungere quello che volevano perché alle prime difficoltà hanno mollato. Lo sport agonistico differisce da quello non agonistico principalmente perché in una competizione non puoi mollare. Sei “costretto” a portarla a termine nel modo più dignitoso possibile. Sei costretto a metterti in gioco. Non ti puoi nascondere. I risultati sono pubblici ed a portata di tutti. Ci vuole coraggio dunque. E di coraggio non ne serve molto anche nella vita?

Quanto sono importanti gli obiettivi personali per il buon esito di una competizione? Basta volere fortemente un obiettivo per raggiungerlo?

“Un uomo senza obiettivi è come una nave senza timone” (Seneca). Tutti noi abbiamo bisogno di prendere una “pietra”, lanciarla lontano per poi raggiungerla in un secondo momento. La motivazione (intrinseca o estrinseca che sia) può essere dunque misurata dalla disponibilità ad impegnarsi nonostante le avversità per raggiungere un dato obiettivo. Nella vita, come nello sport, ogni anno molti si pongono degli obiettivi. Solo alcuni però li raggiungono. Come mai? Per raggiungere degli obiettivi ci vuole metodo, strategia. Non basta volere raggiungere una vetta per arrivarci. E’ necessario sapere come e cosa fare. Tra i diversi modelli che vengono proposti dalla psicologia dello sport per aiutare un atleta a raggiungere il proprio obiettivo, mi piace citare il modello SFERA  ideato da un amico di Sportmeet, il prof. Giuseppe Vercelli di Torino. Psicologo della Nazionale Italiana di Sci Alpino e della Federazione Italiana di Canoa e Kayak. Egli spiega l’esistenza di 5 attrattori della massima prestazione: la Sincronia, la Forza, l’Energia, il Ritmo e la Attivazione. La Sincronia è la capacità di un atleta di mantenere l’attenzione solo su stimoli di gara utili nell’attimo presente evitando di farsi distrarre da ciò che è appena passato, da ciò che potrà avvenire nel prossimo futuro o da ciò che accade attorno a noi (per es. in tribuna, ad un altro atleta, ecc.). Tutti gli atleti hanno punti di forza (tecnici, tattici e mentali) e punti di debolezza. Il segreto in gara sarà quello di far veder solamente i nostri punti di forza, nascondendo quelli di debolezza. Anche perché se l’avversario capisce qual è il nostro punto debole, ci  può mettere in grossa difficoltà. L’Energia riguarda la capacità di gestire le energie durante la gara. Una mettiamo poco energia, siamo deboli; quando mettiamo troppa energia in un gesto atletico siamo ugualmente deboli. L’energia a nostra disposizione va dosata e gestita bene durante la gara, evitando di sprecarla per strada come per esempio quando di fronte ad una frustrazione si compiono dei gesti antisportivi o inutili. Il Ritmo riguarda la capacità di un atleta di alternare l’azione alla “non azione”. Talvolta bisogna occupare uno spazio ed altre volte lasciare lo spazio ad un compagno. Col giusto ritmo l’atleta è elegante ed efficace allo stesso tempo. L’Attivazione riguarda la motivazione. Tanto più un evento o una gara ci “attiva” tanto più saremo motivati a farla. L’azione combinata dei 5 attrattori permettono all’atleta la massima connessione tra il corpo e la mente dove tutto  “avviene” semplicemente in perfetta armonia con l’ambiente circostante. La competizione in questo caso può essere un mezzo per aiutarci a raggiungere quello che sentiamo di volere veramente.